04. MORO – Grassi: La Renault 4 ed il corpo di Aldo Moro – 31 agosto 2016

04. MORO – Grassi: La Renault 4 ed il corpo di Aldo Moro – 31 agosto 2016

 
04. Moro – GRASSI: LA RENAULT 4 ED IL CORPO DI ALDO MORO
 
 
 
 
 
di Gero Grassi – Vicepresidente Gruppo PD Camera Deputati
 
 
 
 
 
 
Trovarsi all’alba di una soleggiata mattina romana di fronte alla Renault 4 nella quale, il 9 maggio 1978, a Roma, in via Caetani, fu ritrovato il corpo esanime di Aldo Moro, da sensazioni di diversa natura.
La prima immagine che ti scorre dinanzi agli occhi è quella giornata, lontana trentotto anni fa, nella quale, all’ora di pranzo, la televisione in bianconero dell’epoca offre le immagini di un’Italia infranta e di un uomo sacrificato ingiustamente.
Eravamo giovani e certamente ingenui. In quel momento avemmo paura. La paura di essere indifesi di fronte alla violenza e alle armi dei brigatisti, noi nati e cresciuti in un Paese che troppo in fretta aveva dimenticato la guerra e le sue brutture.
Vedo l’automobile, in un garage della Polizia di Stato, finalmente ritrovata.
Penso al colore dell’auto: il rosso. Quello del sangue, sgorgato impietosamente dal petto di Aldo Moro, dopo gli undici colpi dei brigatisti, incapaci di ucciderlo sul colpo, considerati i qaurantacinque minuti di agonia.
Vedo la Renault e scorrono, con immenso dolore, le immagini dei 55 giorni più lunghi della storia della Repubblica: l’eccidio di via Fani con i corpi straziati di cinque servitori dello Stato Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi; l’enigma di via Gradoli, la farsa della seduta spiritica e del lago della Duchessa, i comunicati dei brigatisti, l’ansia degli italiani onesti, il dramma vissuto dalla famiglia Moro, la voce ansimante di Papa Paolo VI che scrive alle Brigate Rosse una lettera indimenticabile. Vedo anche le facce grigie e tristi dei colpevoli, quelli diretti e quelli indiretti che fanno più paura.
Mi vengono in mente le parole di Giovanni, figlio dell’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, che guidava l’auto di Moro. Mi ha detto di essere vissuto sino all’età adulta con le immagini del padre, crivellato di colpi e riverso in una pozza di sangue, all’interno della Fiat di Moro con un articolo sul Corriere della Sera del 9 maggio 1979.
Penso a Maria Fida Moro che, con le lacrime agli occhi, mi ha confessato che sarebbe stato meglio che in via Fani il padre fosse morto, evitando così la lunga agonia dei 55 giorni.
Penso al destino beffardo che vede Moro rapito in via Mario Fani, nato a Viterbo nel 1845 e morto a Livorno nel 1869, attivista cattolico e deceduto in via Michelangelo Caetani, nato a Roma il 1804 ed ivi deceduto nel 1882, letterato e politico. Strade intitolate a due personaggi, non famosi, le cui caratteristiche culturali, sociali, professionali si ricollegano benissimo alla vita e al pensiero di Moro.
A queste immagini, oggi ormai invecchiato anch’io, si sovrappongono gli studi, le ricerche, le scoperte fatte in questi anni nei quali rincorro la verità sul rapimento e sull’omicidio di Aldo Moro: Servizi segreti, Servizi e Stati esteri interessati all’omicidio, omissioni e ritardi della Magistratura, colpevolezze delle Forze di Polizia, l’ombra impietosa e criminale della P2, l’indifferenza di molti cittadini e le bugie di parte dello Stato e di un pezzo di classe politica che accompagnano tuttora il delitto di abbandono, come il senatore democristiano Carlo Bo, Rettore dell’Università di Urbino, definì la morte di Moro.
Tante emozioni e tante sensazioni offre la vista di una semplice auto, ben tenuta dal proprietario Filippo Bartoli che prima di morire l’ha donata allo Stato. Quale? Quello che partecipò miseramente e con indolenza alla morte di Moro? Credo di no. Penso che Bartoli l’abbia donata allo Stato della Resistenza, della Costituzione, della Repubblica. Allo Stato dei cittadini onesti che pagano le tasse, che soffrono per la disoccupazione dei propri figli, che devono fare i conti con stipendi che ormai non assicurano più il diritto alla vita umana. Certamente non allo Stato corrotto, ma a quello onesto che considera la persona prima di tutto.
Vedo la Renault rossa insieme con l’ing. Nicola Moschella, Dirigente superiore della Polizia di Stato e i suoi uomini, orgogliosi di aver ristrutturato e ben tenuto il simbolo di due Italie: quella che distrugge e quella che crea. Da un lato i brigatisti, presuntuosi di cambiare il mondo con sangue ed omicidi, insieme con loro quanti non hanno fatto il proprio dovere nel caso ‘Moro’. Di fronte un contadino, Filippo Bartoli, che rinuncia a prezioso denaro, non vendendo mai l’auto per non rendere volgare ed economicamente produttivo, l’omicidio di Moro.
L’Italia del gossip e delle frivolezze contro l’Italia dei sacrifici, dei diritti e doveri.
Vedo la Renault rossa ed immagino le sensazioni ed il dolore di Moro mentre lo sparano, non nel cofano, come sinora ci hanno sempre detto. Alza una mano per difendersi nell’illusione di fermare i colpi di pistola e la violenza brigatista, colma di odio e di pazzia criminale. Forse quella mano vuole difendersi da uomini in doppiopetto che attraverso la ragion di Stato sacrificano l’uomo, inseguendo fortune personali che pure arrivano, nonostante l’omicidio.
Aldo Moro non è stato sparato nel cofano: alcuni bossoli sono stati trovati sul volante e non è possibile che siano finiti là, se sparano stando dietro il cofano. Sul parafango posteriore ci sono macchie di sangue ed è impossibile che il sangue sia giunto là, se è vero, come è vero che Moro è morto per emorragia interna. Sulla cappotta interna del cofano ci sono le impronte delle dita di Moro sporche di sangue. Quel punto è inarrivabile per il martire disteso nel cofano.
L’autopsia dice che Moro fu sparato con colpi che dal basso andavano verso lui. I brigatisti sostengono di averlo ucciso in auto e quindi con colpi che dall’alto andavano verso il basso.
La Renault rossa mi parla e racconta una verità sinora negata, attraverso le bugie dei brigatisti e la complicità di pezzi dello Stato.
L’uomo rannicchiato in quel cofano, molto più piccolo di lui, sembra un Cristo indifeso di fronte alla lucida follia omicida. Ricorda l’immagine della Pietà di Michelangelo con la Madonna che raccoglie in grembo il figlio morto.
La Renault parla e racconta molte verità: la grandezza umana, civile, culturale e politica di Aldo Moro e la rozzezza di tanti altri che continuano a perpetuare l’omicidio, dimenticando che Moro ancora oggi è amato e ricordato, quindi è vivo. Loro cadranno tutti nell’oblio del dimenticatoio portandosi appresso la responsabilità di aver fermato il processo di cambiamento dell’Italia e aver ucciso una persona, amica, buona e mite.
Ecco perché l’Italia attende la verità, quale che sia. Senza sconti e senza risparmiare nessuno. La verità rafforza lo Stato, non lo indebolisce.
‘Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino’, diceva Moro.
‘Io so, ma non ho le prove’, diceva Pier Paolo Pasolini.
Io dico: ‘Io so, ma non ho ancora tutte le prove’.
 
 
Roma, 20 maggio 2016