VENTI ED EVENTI – Una vera verità su Moro di Miki De Fidis

VENTI ED EVENTI – Una vera verità su Moro di Miki De Fidis

di                    28  marzo 2014
Una vera verità su Moro

Salve
Il perenne tormento di una politica sempre più imbrigliata in un cambiamento più proclamato che cercato, ha fatto passare quasi in sordina una vicenda per me agghiacciante, una di quelle notizie che dovrebbero invece far riflettere molto e fermare tutto il resto per capire in che Paese viviamo!
Mi riferisco ad Aldo Moro ed alle nuove rivelazioni sul suo terribile omicidio di cui vorrei parlare oggi perché credo che la ricerca di una verità non debba mai fermarsi sino a quando non incontra la vera verità.
Domenica scorsa Enrico Rossi, ispettore di polizia in pensione, racconta all’Ansa la sua inchiesta su Via Fani. Le sue parole trasmettono una rivelazione che ha dell’incredibile: nell’omicidio Moro, quel giorno, era il 16 marzo del 1978, su una moto Honda a via Fani vi erano due 007 a proteggere il lavoro delle Br.
Tutto è partito da una lettera scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore di quella moto. Bisogna rileggerla attentamente per capire quale nuova verità potrebbe rivelare. E lo faccio con voi.
“Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto ed operavo alle dipendenze del Colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti – continua la lettera – non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontrarlo ultimamente …”
L’anonimo che scrive all’ispettore Rossi fornì anche concreti elementi per rintracciare colui che guidava la moto.
“Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più”.
Il Quotidiano all’epoca passò alla questura la lettera per i dovuti riscontri. Ad Enrico Rossi, che ha sempre lavorato nell’antiterrorismo, la lettera arriva sul tavolo nel febbraio 2011, gli arriva in modo casuale, senza un protocollo e senza che vengano svolti i dovuti accertamenti, ma ci vuole poco ad identificare il presunto guidatore della Honda di via Fani. “Sarebbe lui l’uomo che secondo uno dei testimoni più accreditati di Via Fani – l’ing. Marini – assomigliava nella fisionomia del volto ad Eduardo De Filippo. L’altro, il presunto autore della lettera, era dietro, con un sottocasco scuro sul volto, armato con una piccola mitraglietta. Sparò ad altezza uomo verso l’ingegner Marini che stava entrando con il suo motorino sulla scena dell’azione”.
Poi l’ispettore Rossi continua così il suo racconto. “Chiedo di andare avanti negli accertamenti, chiedo gli elenchi di Gladio, ufficiali e non, ma la pratica rimane ferma per diverso tempo, alla fine opto per un semplice accertamento amministrativo: l’uomo ha due pistole regolarmente dichiarate. Vado nella casa in cui vive con la moglie ma si è separato. Non vive più lì. Trovo una delle due pistole, una beretta, e alla fine, in cantina poggiata o vicino ad una copia cellofanata della edizione straordinaria de La Repubblica del 16 marzo con il titolo:Moro rapito dalle Brigate Rosse, l’altra arma.”
E’ una Drulov cecoslovacca, una pistola da specialisti a canna molto lunga che può anche essere scambiata a vista da chi non se ne intende per una piccola mitragliatrice. Rossi insiste: vuole interrogare l’uomo che ora vive in Toscana con un’altra donna ma non può farlo. “Chiedo di far periziare le due pistole ma ciò non accade”. Ci sono tensioni e alla fine l’ispettore a 56 anni, lascia. Va in pensione, convinto che si sia persa una grande occasione perché c’era un collegamento oggettivo che doveva essere scandagliato.
Poche settimane dopo una voce amica gli fa sapere che l’uomo della moto è morto e che le pistole sono state distrutte. Rossi attende molti mesi, dall’agosto 2012, prima di parlare. Poi decide di farlo per il semplice rispetto che si deve ai morti.
Dal tenore di questa lettera, quale che sia la sua attendibilità, ricavo due riflessioni. La prima riguarda la necessità per la storia democratica del nostro Paese che si indaghi ancora sulla vicenda Moro. Il fatto che una nuova commissione d’inchiesta continui a cercare la verità è confortante in tanta amarezza. Ne ho parlato qualche giorno fa con l’onorevole Gero Grassi, vicepresidente dei deputati del Piddì, uno che non ha mai gettato la spugna, che ha sempre denunciato i buchi neri delle indagini. Lo ha fatto con coraggio mentre molti tacevano. Se la storia dell’omicidio Moro non viene ancora consegnata all’oblio, questo merito è soprattutto di Gero Grassi.
La seconda riflessione ripropone un’amarezza profonda. Nel giugno del ’76 quando Moro venne rapito, la Dc era al 38% seguita dal Pc di Berlinguer al 34%. Moro era il probabile candidato alla presidenza della Repubblica, da dove avrebbe sicuramente favorito l’alleanza, tra i democristiani e i comunisti. Con il suo assassinio si chiude definitivamente la stagione del compromesso. Ho avuto la fortuna di parlarne lungamente con il giudice Ferdinando Imposimato e ancor prima con Corrado Guerzoni, un giornalista che collaborò per molti anni con Moro.
Quale verità si può ancora dunque cercare rispetto a quella ancora da negare? Certo non si fece nulla per salvare la vita di quell’uomo buono e mite per usare le parole di Paolo VI°.
E allora? Non fu forse detto che il falso è suscettibile d’una infinità di combinazioni ma la verità ha solo un modo di essere! Se così è, torna attuale il monito di Roosevelt, che così scrisse: la verità si scopre quando gli uomini sono liberi di cercarla.
Arrivederci.