“No a un Pd che si guarda l’ombelico ma neanche uno che continua a coprirsi gli occhi”

“No a un Pd che si guarda l’ombelico ma neanche uno che continua a coprirsi gli occhi”

di Giuseppe Fioroni
“Tornare a parlare alla gente, con il linguaggio della gente. Sdoganare l’immagine sinistra-comunismo che Berlusconi ha cucito addosso al Pd, anche prendendo pubblicamente le distanze dal concetto di comunismo e sostituendolo con i concetti di bene comune ma anche meritocrazia. Fornire a tutti gli strumenti per partire alla pari in un sistema che premia i più bravi ma fornisce un paracadute pure agli altri. Dare l’esempio, essere inattaccabili sul piano personale. E dire anche “Grillo non ci ha rubato voti: li abbiamo persi noi”. Ecco, questo vorrei sentirmi dire oggi da voi”. Ho chiesto a un giovane amico, nostro non-più o forse non-mai elettore, di spiegarmi meglio cosa avesse voluto dirci stavolta con il suo preferire altro.

di Giuseppe Fioroni
“Tornare a parlare alla gente, con il linguaggio della gente. Sdoganare l’immagine sinistra-comunismo che Berlusconi ha cucito addosso al Pd, anche prendendo pubblicamente le distanze dal concetto di comunismo e sostituendolo con i concetti di bene comune ma anche meritocrazia. Fornire a tutti gli strumenti per partire alla pari in un sistema che premia i più bravi ma fornisce un paracadute pure agli altri. Dare l’esempio, essere inattaccabili sul piano personale. E dire anche “Grillo non ci ha rubato voti: li abbiamo persi noi”. Ecco, questo vorrei sentirmi dire oggi da voi”. Ho chiesto a un giovane amico, nostro non-più o forse non-mai elettore, di spiegarmi meglio cosa avesse voluto dirci stavolta con il suo preferire altro. Mi ha mandato quello che considero un mini programma e l’implicita conferma di ciò di cui ero già convinto e cioè che, il giorno dopo i risultati elettorali, più che interpretazioni e contorsionismi numerici, a noi viene chiesto di fare prima delle serie riflessioni e poi delle conseguenti, concrete proposte.
Perché questo è il punto: chiederci come mai non siamo riusciti a intercettare il partito degli scontenti, il primo partito d’Italia. Perché, bene che vada, siamo stati la quinta scelta? Perché se sbaglia e delude Berlusconi paghiamo il conto pure noi? E’ questo il prezzo da pagare a questo bipolarismo, probabilmente. Ma non basta.
Il partito degli scontenti ha preferito prima di tutto sfilarsi dalla contesa, restarsene a casa. Poi ha votato la Lega, che è insieme un partito di maggioranza e di opposizione e che certifica la frattura e la distanza che ormai separa Pdl e leghisti, consegnandoci anche una nuova geografia elettorale nella quale il Pdl si confina al Sud e lascia in mano a Bossi tutto il resto. Gli scontenti poi hanno preferito Grillo e l’Italia dei Valori: solo in quinta battuta i fuggitivi da Berlusconi sono approdati al Pd: perché non ci votano? Credo che nessuna analisi elettorale possa e debba prescindere da questa domanda, né serve ostinarsi a interpretare e tirare i voti di qua e di là: gli italiani sanno leggere i numeri fondamentali, il numero di presidenti eletti, i voti assoluti in meno e il divario tra centrodestra e centrosinistra. Il resto rischia di essere solo una inutile e dannosa seduta auto-consolatoria.
Con le interpretazioni, temo, non riusciremo a strappare un solo voto in più. Credo invece che sia ora di mettere in campo, e subito, una proposta e un progetto credibili per il governo del Paese perché solo così, tra l’altro, recupereremo credibilità e costruiremo alleanze che non siano ammucchiate.
Allo stesso tempo credo si debba perdere l’ossessione di inseguire il primo stormir di fronde o di farci tirare per la giacca da Grillo e da Di Pietro  perché non si governa cercando la competizione sulle nicchie elettorali ma riallacciando un rapporto forte e serio con la società, con le forze sociali e produttive, i sindacati.
Occorre ricostruire un blocco sociale del paese che guardi al Pd come il perno di un’alternativa in grado di tenere unito e insieme tutto il Paese e non singoli segmenti spesso portatori di una conservazione rancorosa.
Forse non ci votano, o non ci votano più, semplicemente perché non sanno, votando noi, cosa votano, quale idea di società, di Paese, di scuola, di sanità, di welfare. Ciò che manca non è il contenitore, è il contenuto. E il contenuto deve essere la capacità di incarnare innovazione e modernizzazione del Paese dando risposte credibili a quella ricerca di un bene comune nel quale si sappiano tenere insieme le aspettative dei commercianti e degli artigiani, dei cooperatori e delle imprese con quelle dei lavoratori. Non possiamo più essere percepiti, e quindi definiti, solo in base ai No che diciamo (e sia chiaro, servono anche quelli) ma piuttosto per le risposte che siamo capaci o meno di mettere in campo.
Su questo, in politica, non basta fare le cose giuste ma è indispensabile farle anche al momento giusto perché parlare di cose giuste nel momento sbagliato a volte è dannoso come non parlarne per niente.
Cominciamo, poi, a usare parole comprensibili a tutti e concrete. Riforme? Certo. Ma dobbiamo pretendere che quelle da cui partire siano quelle sociali, mettendo mano al sistema ormai inadeguato degli assegni familiari, alle inesistenti politiche per la famiglia sbandierate dal governo, alla sostituzione della parola “deroga” con quella di “diritto” per gli ammortizzatori sociali (il paracadute per chi non ce la fa da solo) come avviene negli altri Paesi europei, a riformare un fisco che preveda criteri diversi per le famiglie con figli, per quelle monoreddito a 1.300 euro al mese, per quelle di pensionati a 770 euro al mese avendo la saggezza, come Pd, di lavorare perché tutto questo si realizzi senza stare a perderci in dibattiti sociologici su cosa sia la famiglia, perché sappiamo che mentre noi stiamo lì a dibattere durante i convegni, quelle non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese.
E un’altra cosa dobbiamo fare: avere il coraggio di chiamare “emergenza nazionale” la disoccupazione dei nostri figli, che ormai tocca il 28,2%, figli che pagano non loro colpe ma quelle di generazioni di padri che hanno lasciato sulle loro spalle un debito devastante e politiche inadeguate, mettendogli una pietra al collo invece di aiutarli a prendere il volo verso un’autonomia basata sulle proprie capacità. Perché questo è un Paese che non sa offrire più opportunità a tutti ma solo raccomandazioni a pochi.
E perché le pari opportunità non siano solo un vago auspicio ma si traducano in strumenti concreti, è necessario mettere mano al sistema bloccato di democrazia economica, cioè l’accesso al credito. La crisi della piccola e media impresa, non è un mistero, oggi è dovuta in gran parte alla crisi di cassa e di liquidità, anche per colpa di enti pubblici e privati che non pagano più o non pagano in tempo. Serve più competizione nel sistema bancario, far sì che la Cassa depositi e prestiti con i 15 mila sportelli postali, diventi una vera e propria banca che entra nel mercato del credito perché chi oggi decide a chi dare soldi e a chi non darli decide della vita e della morte delle imprese e spesso, purtroppo, anche delle persone, come dimostrano i gesti disperati di tanti imprenditori.
Pari opportunità non saranno mai possibili, poi, senza scuola, Università e ricerca degne di questo nome e degne di un Paese civile e industrializzato. La strada non è quella di operare per continui tagli, riportando la situazione a prima del ventennio, con un sistema di avviamento professionale scadente per tanti e una scuola di eccellenza per pochi.
Al ministro Tremonti, che non sa mai dove prendere le risorse, facciamo presente che c’è mezza Italia che dichiara un reddito di 15 mila euro: magari dare un’occhiata lì, invece di mandare in bancarotta gli enti locali, scuola e Università?
Nessuno nega l’importanza della riforma della giustizia ma di fronte a quella della giustizia sociale, dentro a una crisi drammatica come quella che stiamo vivendo, non c’è partita. Perché, diversamente, il sistema elettorale e il presidenzialismo rischiano di essere le brioches promesse a chi non ha neanche il pane.
Sfidiamoli sulle riforme sociali, smettiamola di stare al loro gioco del ping pong su chi le riforme le vuole di più: presentiamo nostre proposte assumendole anche come base per l’alternativa di governo e impediamogli soprattutto di cucirsi istituzioni su misura.
Questo, credo, è il Pd che può ricominciare a farsi capire dalle persone. Certo non un Pd che si guarda l’ombelico: ma neanche uno che ha deciso di smettere proprio di guardare coprendosi gli occhi.

di Giuseppe Fioroni