10 Feb LA NUOVA CITTA’ – Gioco di specchi, di storia e sentimenti nel nuovo libro di Gero Grassi
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in Rassegna stampa
Gioco di specchi, di storia e sentimenti nel nuovo libro di Gero Grassi
Il sacerdote e il calzolaio
di Paolo Vallarelli
Attinge a memorie autobiografiche e visive Grassi, scandagliate con la peculiarità dello storico e la
bravura del romanziere. Un incedere da saga familiare, epico, incalzante. Non fai in tempo a finire un capitolo che subito ti ritrovi a pensare alla tua gente, quella nata con la consapevolezza che non aveva niente su cui contare.
Solo il lavoro, non il lavoro dal concetto ampio, ma quello umile, faticoso, spesso non retribuito mai abbastanza da vivere una vita dignitosa. La
storia di Gero Grassi è un respiro profondo; un vorticoso càleidoscopio di fatti storici prima e di vita quotidiana poi. Una storia semplice di uomini e donne, una rievocazione temporale, un viaggio di iniziazione alla vita, al suo evolversi, spesso segnata da cadute improvvise, e da risalite altrettanto difficili. È un mondo antico, già antico, perché tutto inizia dopo l’Unità d’Italia, quando i Borboni sono stati cacciati via da un abile eroe che di nome fa Garibaldi. Colpisce la tecnica narrativa; gioca a suo favore la scelta di infilare in quel caleidoscopio tanti frammenti che emanano luce verso ogni direzione. Domenico, nato nel 1822, Paolina, trovatella, abbandonata e figlia della ruota: luogo fisico che ogni terlizzese dovrebbe conoscere; luogo in cui venivano lasciati i bambini i cui destini sarebbero stati segnati dalla miseria, da un futuro nero come la pece. Basterebbe questo breve incipit de Il sacerdote e il calzolaio, a generare nel lettore, curiosità, fascino per le vicissitudini dei personaggi che evidenziano una subliminale sofferenza, quasi ancestrale, ma con la certezza di
una casa semplice, del cibo, la solidarietà tra fratelli. Oggi, dov’è tutto questo? Un racconto che termina troppo presto. Forse Grassi avrebbe dovuto dare più voce ai personaggi a lui cari, le cui storie ha udito da bambino. Un dialogo esteso avrebbe elevato ancor di più il suo lavoro, anche
perché quei personaggi, durante la lettura, ti fissano negli occhi. Ma non è certo questo un difetto; parlo per deformazione: mi piace pensare che quando dai voce e anima alle figure presenti in un libro, siano loro stesse a prendere per mano l’autore, a svilupparne la trama. Ma ogni autore affina prima e sposa poi lo stile che meglio crede. Quello di Grassi è un romanzo corale: i personaggi nascono, vivono la loro vita e muoiono con serenità. E si sa che per i saggi, i filosofi e molti scrittori la morte ha un qualcosa di liberatorio, taumaturgico, salvifico. E lo sapeva bene don Ferdinando Fiore, spesso citato nel romanzo, che si lasciò morire in solitudine per scrollarsi di dosso le diffamazioni ingiustamente indirizzategli durante il sacerdozio. Una guida morale prima e spirituale poi per la città, negli anni Ottanta dell’Ottocento, forse colpevolmente dimenticata, quasi mai riscattata abbastanza. Il romanzo assume la valenza di un ritorno (e un riparo) nel passato. Una mission riuscita: fa scattare scintille tra la grande storia e quella piccola piccola della nostra gente.
Un arazzo che ti illumina con i suoi colori, con la raffinatezza della trama. Una bella storia di madri, padri e figli che inseguono una sorta di (auto)redenzione umana attraverso la semplicità dei gesti, dell’amore, del perdono. Ne avremmo proprio bisogno di romanzi scritti così. Oggi più che mai.