IL FOGLIO – Ecco perché gli euro compagni dalemiani vogliono dichiarare la fine del PD

IL FOGLIO – Ecco perché gli euro compagni dalemiani vogliono dichiarare la fine del PD

D’Alema vuole riscrivere il Dna del nostro Partito”. Cattodemocratici in rivolta contro l’offensiva europea dell’ex premier.
 
Pubblichiamo l’intervento del senatore del Partito democratico Mauri Ceruti, relatore del Manifesto dei valori del Pd, in risposta all’articolo firmato mercoledì scorso su questo giornale dal segretario generale di Italianieuropei Andrea Peruzy (“Dalemiano doc spiega perché il futuro dei compagni del Pd è rifondare la socialdemocrazia in Europa”).
 
Andrea Peruzy svolge un’analisi del contesto socioeconomico e politico dei nostri giorni che è condivisibile e che anzi fa parte delle premesse culturali del Pd. Ma le conclusioni che ne trae mi paiono segnare un vero e proprio arretramento rispetto al progetto del Pd, se non una decisa inversione di rotta. Peruzy osserva, curiosamente, che se si considera nella seconda metà degli anni Novanta la massima parte dei paesi dell’Unione erano da loro guidati, “appare paradossale il declino che ha spinto i socialdemocratici europei sempre più ai margini delle attività di governo”. Ma non è proprio questo declino che, invece di essere assunto come paradossale, dovrebbe piuttosto apparire il segno di un’inadeguatezza della prospettiva socialdemocratica a cogliere la radicale novità del contesto socioeconomico e politico sviluppatosi negli ultimi decenni, attraverso i processi di globalizzazione e di innovazione tecnologica?….

D’Alema vuole riscrivere il Dna del nostro Partito”. Cattodemocratici in rivolta contro l’offensiva europea dell’ex premier.
 
Pubblichiamo l’intervento del senatore del Partito democratico Mauri Ceruti, relatore del Manifesto dei valori del Pd, in risposta all’articolo firmato mercoledì scorso su questo giornale dal segretario generale di Italianieuropei Andrea Peruzy (“Dalemiano doc spiega perché il futuro dei compagni del Pd è rifondare la socialdemocrazia in Europa”).
 
Andrea Peruzy svolge un’analisi del contesto socioeconomico e politico dei nostri giorni che è condivisibile e che anzi fa parte delle premesse culturali del Pd. Ma le conclusioni che ne trae mi paiono segnare un vero e proprio arretramento rispetto al progetto del Pd, se non una decisa inversione di rotta. Peruzy osserva, curiosamente, che se si considera nella seconda metà degli anni Novanta la massima parte dei paesi dell’Unione erano da loro guidati, “appare paradossale il declino che ha spinto i socialdemocratici europei sempre più ai margini delle attività di governo”. Ma non è proprio questo declino che, invece di essere assunto come paradossale, dovrebbe piuttosto apparire il segno di un’inadeguatezza della prospettiva socialdemocratica a cogliere la radicale novità del contesto socioeconomico e politico sviluppatosi negli ultimi decenni, attraverso i processi di globalizzazione e di innovazione tecnologica? Ciò, peraltro, vale anche per le altre culture politiche riformiste e riformatrici, cattolico – democratica e liberal – democratica, che insieme a quella socialdemocratica hanno fatto la storia della democrazia europea del Novecento.
Paradossale mi pare invece l’atteggiamento di Peruzy rispetto al comportamento del tradizionale elettorato delle socialdemocrazie europee: le sinistre europee saprebbero dare le risposte di cui tanto abbiamo bisogno nei nostri giorni di crisi, perché la loro cultura e la loro tradizione li renderebbe ben più adeguati dei loro concorrenti. Solo che oggi in genere non governano. Come mai, se posseggono tante risposte giuste? E’ solo una questione di inadeguata comunicazione con il corpo elettorale? Non è forse vero il contrario? Cioè che la situazione europea attuale impone di cercare le risposte davanti e non dietro, di impostare un progetto politico atto a concepire il nuovo e non a gestire il già detto e il già pensato?All’orizzonte delle sinistre europee, in effetti, crisi di consenso e crisi di progetto si intrecciano strettamente, e non è possibile uscirne senza profondi cambiamenti di paradigma. Le recenti scelte elettorali europee evidenziano due questioni esemplari del nostro discorso su un nuovo modello sociale e su una nuova centralità della persona.

La prima concerne il welfare. A medio termine, le forze politiche che “smaniano” parti rilevanti  del welfare sono bocciate dagli elettori. Il welfare, fa ormai
parte dei fondamenti delle società europea e la società, soprattutto in tempo di crisi, richiede più welfare, non meno welfare. Ma sta alle forze politiche orientare questa domanda in senso innovativo,
generando nuove alleanze fra pubblico e privato, fra generazioni; fra individui e fra collettività. Il tradizionale welfare state risarcitorio non solo oggi e insostenibile, ma soprattutto è insufficiente. Abbiamo
bisogno di un welfare attivo, universale e comunitario, che sia motore di crescita: la socialità deve entrare nell’economia come criterio informatore delle sue regole e delle sue politiche, secondo la
prospettiva di una vera economia sociale di mercato.
La seconda questione concerne l’ambiente: questa è ormai entrata a far parte dell’orizzonte politico, non solo nelle sue dimensioni globali (il riscaldamento ambientale, la transizione verso energie rinnovabili)
ma anche nelle sue dimensioni locali, legate alla vita quotidiana dei cittadini. Inoltre, sempre più spesso i movimenti ambientalisti sono percepiti contemporaneamente come movimenti dei diritti civili, auspicanti una maggiore libertà per le persone di scegliere e di mettere in atto i propri stili di vita.
Queste due tendenze — verso un nuovo welfare e verso un nuovo ambiente—hanno in comune la domanda di una sempre qualità sociale, da realizzare non attraverso l’omologazione ma attraverso la valorizzazione e la messa in rete delle specificità delle persone. Una maggiore qualità sociale non può essere oggi realizzata che attraverso una maggiore autonomia dello sviluppo umano di ogni
persona, insieme con una maggiore interdipendenza e supporto reciproco fra persone quello che la tricotomia liberismo/socialismo/cattolicesimo democratico del Ventesimo secolo faceva sembrare un conflitto irriducibile, oggi e l’orizzonte di una riprogettazione del nostro mondo sociale. Le ragioni costitutive del Pd mi sembrano dunque non soltanto attuali, ma necessarie sulla scala politica europea.
Al contrario, la proposta di Peruzy, mette in discussione il senso profondo di questa origine del progetto politico, e ritiene che la via per ridare identità e prospettiva al partito sia di fatto una radicale esemplificazione della pluralità delle sue componenti culturali. Certo, Peruzy riconosce che le forze socialdemocratiche devono sforzarsi di leggere la realtà attraverso categorie nuove ed elaborare
su questa base politiche innovative. Ma questo non è il progetto da cui è nato il Pd. Legittimi entrambi i progetti, ma senz’altro in rotta di collisione. Come può Massimo D’Alema, uno dei più influenti leader del Pd, essere in Europa, e quindi anche in Italia, il pilota della costruzione di una nuova cultura politica socialdemocratica?
Il Pd è nato per promuovere l’incontro di culture politiche riformiate e riformatrici con radici diverse, in passato anche in conflitto fra loro. La prospettiva di Peruzy (e di D’Alema?) sembra prospettare
il contrario: riproporre in Europa l’autosufficienza del modello socialdemocratico per rigenerarla in Italia. Ma ciò vuol dire dichiarare la fine al progetto del Pd.
Basta la logica, non c’è neppure bisogno della politica. Ho avuto l’onore di partecipare alla fase ‘costituente” di questo partito, come relatore della Commissione incaricata di elaborarne il Manifesto dei valori. Particolarmente appassionante fu il dibattito generato proprio dall’incontro di sensibilità e di culture politiche diverse, in particolare la tradizione della sinistra riformista, la tradizione riformatrice del cattolicesimo democratico, le culture politiche liberali e le più recenti culture politiche dell’ambientalismo e della differenza di genere.
La fecondità di quest’incontro dipende dal comune riconoscimento della fine di un’epoca storica, con radicale trasformazione della società industriale e delle ideologie che si erano divise il campo nell’età della Guerra fredda. I rapidi effetti della globalizzazione e dello straordinario sviluppo di nuove tecnologie producono problemi inediti, un indebolimento della funzione degli stati nazionali, nonché la fine del blocco sociale che aveva sostenuto le tradizionali politiche riformiste. In questo contesto, le diverse culture politiche si riconoscono ciascuna come inadeguata a risolvere e addirittura a formulare i nuovi problemi sociali, economici, antropologici, culturali. Ma queste stesse culture politiche sono un’importante eredità cui attingere esperienze e sensibilità, che solo nell’incontro possono tradursi in nuove declinazioni. Questo è il senso profondo di un partito che fin dalla nascita si è pensato come, nello stesso tempo, uno e molteplice, e ha concepito il suo pluralismo interno come una grande opportunità e non come un ostacolo alla definizione della sua identità e della sua missione.
In questo senso, il Pd ha concepito la sua forza nell’essere un laboratorio politico che al proprio interno sperimentasse ciò che è la caratteristica della nuova società italiana, nonché dell’Europa e del mondo intero nell’età della globalizzazione: il carattere irriducibilmente interculturale di ogni progetto e di ogni identità. Sarebbe preoccupante che il Pd per guardare avanti volgesse lo sguardo indietro, a un mondo che non c’è più. Le diverse culture politiche si devono incontrare non contrapponendosi su singoli terni secondo le prospettive tradizionali, e trovando un minimo comune denominatore:
al contrario, si incontrano per arricchirsi, reciprocamente, di sensibilità e ditemi tradizionalmente non propri all’una o all’altra. Questo è il Pd che in tanti abbiamo immaginato e vogliamo fare crescere.