Il federalismo fiscale e il Partito Democratico: una nota politica

Il federalismo fiscale e il Partito Democratico: una nota politica

 E’ bene chiarire subito cosa deve essere, per il PD, il federalismo fiscale e cosa non deve essere. 

Per il PD il federalismo fiscale deve essere un mezzo per: 

  •  ricostruire un rapporto trasparente fra Stato e cittadini sulle decisioni in materia di spesa pubblica e di imposte;·      
  •   utilizzare meglio le imposte versate dai cittadini a qualsiasi titolo, obbligando le pubbliche amministrazioni a standard di efficienza verificabili;
  •  concentrare l’attenzione della politica e il suo lavoro, in ambito sia nazionale che locale, sui livelli e sulla qualità dei servizi pubblici offerti a cittadini e imprese, che in tante parti del paese sono ancora sottodimensionati e insufficienti;·        modernizzare l’intero apparato pubblico, centrale e locale, e rafforzare i governi di prossimità nella capacità di curare i beni pubblici e il welfare del territorio; Insomma, per il PD il federalismo fiscale è un mezzo per ricomporre l’unità nazionale intorno a uno Stato riformato, a partire da collettività locali consapevoli e coinvolte nei processi decisionali, che diventano sempre più capaci di affrontare le grandi sfide del tempo presente con una maggiore partecipazione alla gestione della cosa pubblica.  Sfide globali, nei cui confronti il nostro punto di riferimento è lo spazio politico, democratico ed economico dell’Unione Europea, uno spazio da rafforzare sempre di più. Sfide che vedono il nostro paese in grave ritardo per la lentezza dei processi di innovazione istituzionale e politico-amministrativa. E di fronte a cui siamo ancora più deboli per la persistenza strutturale del dualismo economico e sociale che caratterizza l’Italia. Con il federalismo non si deve cancellare per legge il tema del Mezzogiorno, ma piuttosto definire una cornice politico-istituzionale che ci consenta di affrontarlo in modo totalmente nuovo, come già cento anni fa proponeva Gaetano Salvemini. Per il PD il federalismo fiscale non deve essere un mezzo per: 
  • ridurre lo Stato a “Stato minimo” e abbassare il livello di guardia delle nostre, già insufficienti, politiche di welfare;·        effettuare politiche di tipo redistributivo, spostando risorse da Sud a Nord;
  •  alterare il principio costituzionale della progressività del sistema fiscale;
  • sostituire al centralismo statale una sorta di neocentralismo delle Regioni; Insomma, per il PD il federalismo fiscale non deve essere utilizzato per ridurre il grado di coesione della collettività nazionale. Non deve scatenare l’egoismo sociale o territoriale. Non deve essere subdolamente considerato come una leva per modificare i due fondamentali principi della nostra carta costituzionale: il principio di uguaglianza dei diritti essenziali dei cittadini, di tutti i cittadini della nazione; il principio che ogni cittadino, indipendentemente da dove risieda, partecipa al finanziamento dei beni e dei servizi pubblici e collettivi sulla base della sua capacità contributiva.

 Una riforma storica, da realizzare con un percorso intelligente, graduale e garantista 

Fin qui i principi generali. Ma in questa materia, complicata e astrusa, conta molto anche il metodo, il processo con cui la riforma verrà progettata, realizzata e sottoposta in continuo a osservazione, monitoraggio e aggiustamento. Il paese non può permettersi che una riforma di questa rilevanza, che entra nel profondo delle più importanti politiche pubbliche, sia condotta in modo affrettato e superficiale: il rischio di commettere errori è molto alto, e gli errori ricadrebbero sull’ordinario funzionamento di pezzi importanti dello Stato, con effetti imprevedibili sulla coesione e sulla competitività del paese. Il PD lo ha già detto: la riscrittura del Titolo V della Costituzione fatta nel 2001 per iniziativa del centro-sinistra contiene grandi opportunità, ma anche lacune e contraddizioni. Ha aperto un contenzioso permanente fra Stato e Regioni sulle materie di rispettiva competenza legislativa. Questo contenzioso è alla base di una drastica caduta di efficacia delle politiche pubbliche nel nostro paese, poiché ha introdotto una permanente incertezza su “chi fa cosa” in campi di grande importanza, dall’energia alle infrastrutture, dalla casa ai servizi sociali, dal trasporto pubblico alla regolazione dei servizi pubblici locali. Di questa incertezza hanno fatto le spese tutti i governi succedutisi fin dal 2001, ma soprattutto il rapporto di fiducia fra cittadini e istituzioni repubblicane. Anche l’art. 119 riscritto nel 2001, quello relativo al federalismo fiscale, è di attuazione non facile. Al PD non piace, e non cesserà di criticare fortemente, una visione edulcorata e propagandistica del federalismo fiscale come di una panacea che, miracolosamente, porterà più soldi a tutti, al Nord, al Sud e alla Sicilia, a Roma Capitale, alle Regioni a Statuto Speciale, e così continuando. E’ questo che il PDL e la Lega hanno promesso durante la campagna elettorale. Ma da dove dovrebbero venire queste risorse aggiuntive? Tutti sappiamo che l’esercizio che siamo chiamati a compiere è “a somma zero”, non deve comportare aumenti né di spesa né di pressione fiscale.  Dopo che il centro-destra ha riempito il paese di promesse irrealizzabili durante la campagna elettorale, è in primo luogo compito del Governo e della maggioranza parlamentare abbandonare ogni atteggiamento sbrigativo e riconoscere che le valutazioni e le analisi da mettere in campo per attuare il federalismo fiscale sono complicate e niente affatto banali. Nessuno capirebbe perché mai il ceto dirigente del paese si è imbarcato in questa riforma, se essa dovesse solo produrre nei prossimi anni un confuso e costante conflitto di tutti contro tutti: Nord contro Sud, Regioni contro Comuni, Regioni ordinarie contro Regioni speciali, e così via litigando e continuando a usare il tempo della risorsa politica non già per risolvere i problemi concreti delle persone ma per un infinito braccio di ferro sull’appropriazione dei (pochi) soldi disponibili da parte delle diverse “caste” centrali e locali. Il PD è disponibile solo a un lavoro serio, che costruisca, innanzitutto in Parlamento, una cornice di informazioni e di dati che permettano al legislatore di fare una buona legge, e non un pasticcio. Si badi bene, non sono necessari solo dati di tipo finanziario e contabile, ma anche dati relativi al concreto svolgersi di tante politiche pubbliche, ai loro costi unitari, ai livelli quantitativi e qualitativi dell’offerta, ai modelli organizzativi.  

Il metodo di attuazione del Titolo V, quindi, dovrà essere intelligente, graduale e garantista. 

Intelligente: significa colmare le incertezze che sussistono nelle norme costituzionali con norme ordinarie, soprattutto in tema di coordinamento del nuovo “governo multilivello” della cosa pubblica italiana, oltre che in tema di poteri sostitutivi da parte dello Stato. Graduale: significa aprire un percorso che durerà alcuni anni. Insomma, non c’è la rivoluzione dietro l’angolo. Garantista: significa garantire il paese che la riforma sarà condivisa e accompagnata da un costante monitoraggio, che coinvolga in modo permanente il Parlamento e le diverse articolazioni centrali e locali della Repubblica.

 Funzioni e risorse 

Per decidere quanti soldi dovranno andare ai diversi livelli di governo (Regioni, Province, Comuni) e con quali meccanismi, si devono prima stabilire le funzioni di ciascuno, ovvero ciò che ciascuno ha il compito di fare nel campo dell’offerta di servizi pubblici. Non si può discutere prima di risorse e poi di funzioni. E’ quello che il Governo Prodi aveva provato a fare varando prima il Ddl “carta delle autonomie” e poi il Ddl di attuazione dell’art. 119.  In questa prima fase è bene ragionare a funzioni date, e cioè concentrarsi sulle storiche funzioni degli enti regionali e locali italiani. Già così sarà difficile far quadrare i conti, i modelli e il consenso, e non è il caso di complicare ulteriormente la questione affrontando temi come quello del “federalismo differenziato” o dell’ulteriore trasferimento di funzioni nel campo dell’istruzione. Va perseguita tuttavia ogni strada possibile per razionalizzare le funzioni esistenti, soprattutto con l’eliminazione di inutili duplicazioni: l’offerta di servizi e la cura del bene pubblico vanno collocate al livello adeguato per raggiungere i minori costi e i maggiori benefici. Vanno incentivate le gestioni associate da parte dei Comuni. Laddove verranno realizzate le nuove Città metropolitane devono essere abolite le Province.

 Una nuova “governance” pubblica ha bisogno di forti istituti di coordinamento

 La finanza pubblica nel suo complesso è materia dello Stato unitario, nell’ambito dei Trattati europei, e non può “spezzettarsi” per territori. Se si “territorializzano” le imposte non si fa il federalismo fiscale ma si modifica la stessa radice della cittadinanza italiana, rinunciando al principio dell’universalità delle prestazioni e della progressività. Si tratta di due principi (la cittadinanza è nazionale, il sistema fiscale è progressivo) irrinunciabili per una forza politica nazionale e riformista come il PD. La nuova governance dell’Italia federale deve prevedere forti istituti e meccanismi di coordinamento fra i diversi livelli di governo. Stato, Regioni, Province e Comuni non devono diventare dei “separati in casa”: ciascuno fa quello che gli è assegnato, con le risorse definite, e nessuno si parla più.  Il principale meccanismo è quello di un coordinamento dinamico della finanza pubblica, che fissa il livello complessivo della pressione fiscale e la sua ripartizione fra i livelli di governo permettendo una programmazione su base triennale, aggiustabile anno per anno sulla base dell’evoluzione del ciclo economico, con provvedimento separato e antecedente la legge finanziaria. La norma è già stata scritta nel Ddl Prodi. Il secondo meccanismo è il rafforzamento del sistema delle Conferenze. Il terzo è la costruzione di una base condivisa di dati relativi ai bilanci di tutte le amministrazioni pubbliche, ai costi di erogazione dei servizi, ai livelli di quantità e di qualità dei servizi stessi, da costituire come organo indipendente presso la Conferenza Stato-Regioni-Autonomie e, in prospettiva, presso la Camera federale. 

Il federalismo fiscale non è il mezzo per arrivare a uno Stato “minimo”: è il mezzo per avere uno Stato più efficiente e più concentrato sui servizi essenziali 

Per il PD il federalismo non deve ridurre il welfare pubblico, semmai rafforzarlo nella quantità, nella qualità, nella legittimità politica. La chiave sta nel rendere più efficienti, e quindi meno costosi, i servizi, ottenendo così le risorse per aumentare l’efficacia e quindi anche l’estensione delle politiche pubbliche, soprattutto nelle zone del paese che restano ancora oggi ben lontane da standard accettabili di offerta nei servizi essenziali. Qui si apre una questione di fondo, affinché il federalismo abbia il senso di una scommessa politica per tutto il paese e non solo per alcune regioni. Questo punto, si badi, è cruciale non solo per il Mezzogiorno, ma anche per tante zone del Centro e del Nord dove, storicamente, si è costruito un welfare locale molto avanzato, soprattutto su basi municipali. Va respinta l’idea che attraverso il federalismo fiscale si debba raggiungere una riduzione dell’offerta di servizi pubblici. Semmai è vero il contrario, perché quando si parla di “standard” si deve intendere non solo standard di costi, ma anche standard di servizio offerto, e cioè sua quantità e qualità. Il PD ritiene che la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili debba risultare sufficientemente estesa e comprendere non solo sanità e assistenza ma anche il trasporto pubblico locale e tutti i servizi di prossimità (ad esempio, gli asili nido, le scuole materne, l’edilizia scolastica dell’obbligo, l’illuminazione pubblica e la sicurezza, la manutenzione urbana, gli interventi nelle periferie delle grandi città, l’accessibilità alle infrastrutture culturali di base come le biblioteche e i musei). A questi servizi è connessa la perequazione garantita dallo Stato in termini di copertura dei fabbisogni. Una perequazione che dovrà coinvolgere anche le Regioni a statuto speciale. Qui emergono, allora, le due grandi sfide. La prima, la sfida dell’efficienza: i fabbisogni di spesa andranno ricostruiti non più a partire da quelli storici, ma in base ai cosiddetti “costi standard”, e cioè i costi più efficienti oggi raggiunti dalle amministrazioni migliori nelle diverse categorie di servizio.  La seconda, la sfida dell’efficacia delle politiche pubbliche e della loro capacità di intercettare in modo universale i bisogni sociali definiti come meritevoli. Per arrivare alla definizione dei nuovi fabbisogni di spesa, infatti, occorre moltiplicare il costo standard unitario per l’obiettivo quantitativo e qualitativo del servizio, e definire veri e propri “standard di servizio” da raggiungere almeno nel medio periodo.  Si tratta di un’impostazione molto simile a quella del processo di Lisbona, in cui l’indirizzo politico non si limita alle assegnazioni finanziarie, ma vincola l’amministrazione al raggiungimento di obiettivi quantitativi verificabili (ad esempio, numero di bambini negli asili nido, percentuale di raccolta differenziata, numero di anziani nelle residenze assistite, vetture-chilometro di trasporto pubblico, ecc.). Questo significa che il PD guarda al federalismo fiscale come a un processo che non si svolge soltanto sul complicato terreno tecnico dei calcoli e delle verifiche di bilancio, ma che coinvolge pienamente e in modo più trasparente del passato fondamentali scelte politiche. Sono gli obiettivi di servizio che devono spiegare perché si aumentano o si riducono le tasse, perché si aumenta o si riduce la qualità e la quantità delle prestazioni in uno o in un altro campo dell’intervento pubblico. La questione è talmente di fondo che riteniamo necessario stabilire per il Parlamento (che legifera in materia di livelli essenziali) procedure di decisione trasparenti e vincolanti: ad esempio una commissione bicamerale paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale che segua tutto l’iter della predisposizione dei decreti di attuazione e diventi la sentinella, durante la fase di applicazione sperimentale, per esercitare il controllo ed effettuare i più che probabili interventi di aggiustamento in corso d’opera. 

Un esempio: gli asili nido 

Un solo esempio sarà utile per spiegare bene di cosa stiamo parlando. Prendiamo gli asili nido, un settore fondamentale in cui convivono obiettivi sociali, di sostegno alle famiglie, e obiettivi economici, di sostegno al tasso di occupazione giovanile e femminile. Un settore gestito direttamente dai Comuni, ma cofinanziato da Stato e Regioni. In base a dati Anci, se prendiamo il costo unitario standard per bambino, esso è molto variabile da regione a regione. La variabilità è influenzata anche dalle scelte tariffarie, e cioè dalla percentuale di contribuzione a carico delle famiglie. Al netto di questo fattore, però, variazioni così accentuate non hanno motivazioni plausibili: la regolamentazione è uniforme in tutta Italia, i contratti di lavoro sono gli stessi, i costi degli acquisti fanno riferimento a un mercato unico. Certamente, si tratta, in questo come in tutti gli altri casi, di verificare e ricostruire in modo metodologicamente impeccabile tutti i dati necessari. E tuttavia, l’estrema variabilità dei costi unitari, in questo come in molti altri casi, è indice che i diversi enti responsabili per l’erogazione del servizio non sono ugualmente efficienti. Una parentesi: l’analisi dei dati disponibili non avvalora la credenza, che molti osservatori danno per scontata, che l’efficienza maggiore (i costi unitari più bassi) si trovino al Nord e il contrario nel Sud. Per esempio, nel caso degli asili nido, in base ai dati dell’Anci, i costi unitari più bassi emergono nelle medie dei Comuni di tre regioni del Sud (Basilicata, Calabria, Sardegna). E’ chiaro che molto lavoro andrà fatto per rendere omogenei e comparabili i dati, ma la sfida dell’efficienza è da combattere in tutta Italia, e non soltanto in una sua parte. In ogni caso, se consideriamo come riferimento la Lombardia e poniamo come obiettivo per tutti i Comuni italiani di raggiungere il livello di costo unitario della media dei Comuni lombardi, questo determinerebbe un obiettivo di aumento di efficienza del 7% a livello nazionale. Nel Centro-Nord i costi unitari dovrebbero, nel tempo, ridursi in media del 5%, nel Sud del 15%. Qual’è, però, il grado di copertura del servizio? In base a dati Istat, il 15,5% nel Centro-Nord e appena il 5,5% nel Sud. Siamo soddisfatti di questa copertura? Ovviamente no, ed anzi in questo settore, come in altri, l’Italia ha sottoscritto in sede europea (Lisbona) un obiettivo di servizio molto impegnativo, pari al 30%. La definizione del fabbisogno standard da garantire a Regioni e Comuni dovrà tenere conto non solo del percorso verso l’efficienza, ma anche di quello verso un sostenibile aumento dell’offerta del servizio. 

Obiettivi di servizio e sistemi di controllo

 L’esempio serve a chiarire che la discussione sul federalismo non si limita alle complicate formule tecniche per effettuare i riparti e le perequazioni. Costringe l’intero sistema paese a valutare gli obiettivi di servizio, a scegliere fra diverse alternative, a fissare risultati da raggiungere, verificabili sul piano quanti e qualitativo. Se una Regione o un Comune sono stati riforniti di risorse sufficienti per aumentare, ad esempio, il grado di copertura del servizio di asili nido per una certa percentuale programmata in un certo numero di anni, e non lo fanno, è lì che devono scattare sanzioni e contromisure per garantire i cittadini di quei territori. E per converso, vanno organizzati sistemi di premialità per gli enti che raggiungono gli obiettivi fissati. Si capisce bene, allora, il lavoro complesso che andrà fatto nei prossimi mesi: costi unitari e livelli di servizio andranno valutati in decine e decine di casi, superando anche asimmetrie informative molto diffuse all’interno delle nostre pubbliche amministrazioni. Non partiamo da zero, grazie al lavoro svolto negli ultimi anni dalla Commissione tecnica per la finanza pubblica. La quale però è stata sciaguratamente soppressa dai tagli della manovra economica di luglio. Il PD ritiene che quel patrimonio di conoscenza e di competenza vada recuperato nell’ambito degli organismi tecnici da istituire per l’accompagnamento del federalismo fiscale. E non partiamo da zero neppure nel settore più complesso e difficile, quello sanitario. Grazie al lavoro del Governo Prodi, nel 2007 la spesa sanitaria è aumentata meno dell’1%, dopo essere cresciuta del 50% fra il 2000 e il 2006. Il Patto per la salute, siglato il 28 settembre 2006, ha funzionato e sta funzionando, con il suo retroterra di costi standard, di valutazioni condivise sull’appropriatezza dei sistemi di cura e di assistenza, con l’introduzione di meccanismi di premialità/punizione per le Regioni. Da questa esperienza è necessario trarre un insegnamento che va tradotto in norme generali: lo Stato deve accettare un più accentuato decentramento, ma le Regioni e gli enti locali devono accettare forme efficaci e pregnanti di poteri sostitutivi.

 Federalismo e Mezzogiorno: portare il Sud verso standard di costo e di offerta in linea con l’Europa

 Nell’impostazione del PD il federalismo non è punitivo nei confronti del Mezzogiorno. Al contrario, la prospettiva che si offre al Sud è quella di avviare, e in alcuni casi continuare, un percorso di adeguamento verso gli standard di servizio propri delle comunità più avanzate del paese e dell’Europa.  L’adeguamento è in due direzioni. Da un lato quella dei costi: i trasferimenti perequativi non saranno più dati “alla cieca”, ma legandoli a parametri di costo efficienti. Dall’altro lato quella del livello dei servizi: i trasferimenti perequativi dovranno consentire al Sud di far crescere gli obiettivi quantitativi e qualitativi dei servizi essenziali, che oggi nel Sud sono spesso ben lontani dagli standard prevalenti in altre zone del paese. Così, gli amministratori pubblici nel Sud saranno incentivati sempre più, al pari peraltro di quelli del Nord, a concentrarsi sui servizi essenziali, sulla loro efficienza ma anche sulla loro quantità e qualità. E per farlo il PD pensa che la perequazione debba essere ampia, debba essere nazionale e non inter-regionale, e che agli amministratori del Sud vada offerta un’altra opportunità.  La proposta è di concentrare le risorse aggiuntive che hanno origine dalle politiche di sviluppo e coesione – la cui destinazione all’85% per il Sud è stata “salvata” grazie a un emendamento del PD durante lo scontro parlamentare sulla manovra di luglio – proprio sugli stessi servizi essenziali che saranno al centro nei prossimi anni dei nuovi meccanismi perequativi. Pensiamo al sistema dell’istruzione di base, agli asili nido, all’assistenza agli anziani, all’acqua, ai rifiuti. Le risorse “aggiuntive” devono essere il volano attraverso cui il rafforzamento della rete di servizi per la popolazione del Sud possa cominciare da subito, per passare poi nel corso del tempo a riflettersi sui flussi della finanza ordinaria.  E’ per questo che non siamo convinti e ci opponiamo all’idea di utilizzare questi fondi concentrandoli solo su pochi grandi progetti infrastrutturali, come sembra intenzionato il Governo dopo la manovra estiva: è necessario invece concentrarli sui servizi essenziali, e quindi anche sulle infrastrutture ad essi collegati, che però sono diffuse e non necessariamente concentrate (ad esempio: le flotte degli autobus urbani, i treni metropolitani, i sistemi di depurazione idrica e di trattamento dei rifiuti, gli asili nido, il recupero delle periferie e l’housing sociale nelle grandi aree urbane, i musei e i parchi archeologici, ecc.).  Il PD ritiene che un coerente progetto di federalismo fiscale non possa marciare senza apportare modifiche significative non solo ai tagli, ma soprattutto alla qualità e all’indirizzo politico che la manovra triennale varata a luglio vuole imprimere all’utilizzo delle risorse destinate al Mezzogiorno.

 Federalismo fiscale e pubblica amministrazione

 L’apparato pubblico italiano non è una variabile indipendente nel processo di riforma. E’ evidente che a tutte le amministrazioni pubbliche l’obiettivo del federalismo fiscale pone sfide rilevanti, che non possono essere affrontate con strumenti ordinari. Si profila la necessità di un grande piano di reingegnerizzazione delle pubbliche amministrazioni, che non potranno raggiungere la frontiera dell’efficienza se non verranno aiutate con percorsi di formazione del personale, di mobilità, di riforma organizzativa. Anche di questo si dovrà discutere e deliberare, e non solo delle campagne anti-fannulloni. La sfida si gioca nel Nord, nel Centro e nel Sud. E’ illusorio pensare che la legittimità delle istituzioni pubbliche, e di quelle locali in particolare, la loro capacità di dimostrare che stanno usando “bene” i soldi raccolti dalle tasse pagate da cittadini e imprese, sia soltanto un problema meridionale.  Nel Sud esiste tuttavia un problema aggiuntivo. Per decenni il pubblico impiego è stato il principale ammortizzatore sociale di territori la cui base produttiva era ed è insufficiente. Ma per affrontare questo problema, che è strutturale, il semplice taglio delle risorse non risolve nulla. Occorre mettere in campo, accanto alle riforme organizzative, l’innovazione degli strumenti della contrattazione e un’azione del tutto speciale che abbia l’obiettivo di abbattere le spese generali degli enti pubblici i cui costi di auto-amministrazione sono fuori linea a vantaggio dei costi diretti per l’erogazione dei servizi. 

Regioni, Comuni, finanza locale 

Attraverso il sistema delle Regioni e delle autonomie locali viene erogato il 29,7% della spesa pubblica nazionale (anno 2007). Il 13,7%, pari a 103,5 mld, appartiene alla voce sanità, gestita dalle Regioni. Il resto delle spese pubbliche locali, per i servizi diversi dalla sanità e per gli investimenti, è suddiviso così: i Comuni allocano 63,5 mld (8,4%), le Province 13 mld (1,7%), le Regioni 49,6 mld (6,6%). Si vede bene da questi dati qual è il ruolo preminente dei Comuni nell’offerta dei servizi di prossimità, un ruolo ancora più accentuato se guardassimo alla sola spesa per investimenti e se tenessimo conto che le Regioni trasferiscono ai Comuni, oltre che alle Province, una quota delle loro risorse. Al di là delle tradizioni storiche da cui questo fenomeno ha origine, l’impianto costituzionale è chiaro: ai Comuni e alle Province spettano i compiti di amministrazione, alle Regioni i compiti di programmazione di area vasta. Qui, le scommesse dell’attuazione del federalismo sono tante. Primo, incentivare l’aggregazione dei piccoli Comuni in entità più vaste, capaci di raggiungere economie di scala e quindi migliori standard di costo (principio di adeguatezza). Secondo, incentivare lo sviluppo di sistemi regionali che in modo coerente e condiviso costruiscano reti di Comuni all’interno di quadri programmatici e finanziari garantiti dalla Regione di appartenenza. Terzo, fare in modo che le Regioni, o quando il caso le Province, si concentrino sulla programmazione di area vasta, sulle reti infrastrutturali sovracomunali, sulle azioni per lo sviluppo sostenibile dell’ambiente economico e non si sovrappongano ai Comuni nell’offerta diretta dei servizi di prossimità. Quarto, incentivare le Regioni alla collaborazione reciproca e a quella con lo Stato per le infrastrutture e le reti che hanno valenza sovraregionale. Una nuova scommessa è quella dell’istituzione delle Città metropolitane, per consentire alle grandi città del paese di concentrare strumenti di governance più complessi e integrati. L’inadeguatezza dei sistemi di governo locale delle grandi aree urbane è uno dei punti dolenti dell’arretratezza dell’assetto istituzionale italiano. Nel nuovo livello di governo devono convergere e saldarsi le competenze dei Comuni e delle Province, forse anche qualche competenza regionale, con attenzione particolare ai fabbisogni infrastrutturali. Ma questo obiettivo così importante non ci deve far dimenticare la vasta rete di città medio-piccole che, soprattutto nel Centro-Nord ma anche nel Sud, sono uno dei fondamentali punti di insediamento storico della tradizione civica e autonomistica della nostra nazione.  I Sindaci, sia delle città grandi che di quelle piccole, vivono con ansia la stagione della riforma federalistica. In effetti, se dovessero improvvisamente trovarsi a dipendere in tutto e per tutto dalla Regione di appartenenza, e non più – come oggi avviene – da risorse finanziarie proprie oppure da trasferimenti garantiti dallo Stato, potrebbero incontrare notevoli difficoltà. Esattamente questo sta avvenendo dopo l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, che ha ridotto l’autonomia tributaria dei Comuni, e nei Comuni appartenenti alle Regioni più esposte sul versante dei bilanci della sanità, dove l’emergenza finanziaria del comparto sanità spiazza la capacità di intervento della Regione in tutti gli altri settori. 

E’ per questo che il PD ritiene necessario che la perequazione nazionale si faccia carico delle funzioni fondamentali dei Comuni.  

D’altra parte, sarebbe ben strano parlare di federalismo fiscale senza parlare di autonomia tributaria degli enti decentrati. Eppure, è questa la contraddizione in cui il Governo Berlusconi si è messo con l’immediata attuazione della promessa elettorale di abolire l’Ici sulle prime case. Paradossalmente, gli enti di prossimità per eccellenza, i Comuni, si avvicinano alla promessa stagione federalista con una drastica riduzione della loro autonomia finanziaria, sostituita – peraltro non pienamente – da nuovi trasferimenti gestiti direttamente dallo Stato centrale. E’ chiaro che da questa contraddizione si dovrà uscire. Attenzione, però, a farlo pensando soltanto a compartecipazioni e addizionali. La principale base imponibile utilizzabile a questo scopo, l’imposta personale sui redditi, ha già assunto in Italia un ruolo ipertrofico all’interno del complessivo sistema fiscale – pesa per il 10,4% sul Pil contro una media europea dell’8,5% (anni 1995-2005) – e colpisce soprattutto redditi da lavoro e pensioni. E infatti, negli altri paesi europei è più alto il peso delle imposte indirette e di quelle reali, e nella grande maggioranza dei casi sono proprio queste le imposte usate per il finanziamento degli enti decentrati. Il Governo e la maggioranza dovranno dirci come intendono uscire da questa contraddizione. Il PD ha già dato un’indicazione, con un ordine del giorno accolto dal Parlamento, e quindi anche dal Governo: trasferire ai Comuni i proventi delle altre imposte esistenti collegate al patrimonio immobiliare (registro, ipotecarie e catastali). E tuttavia, l’autonomia tributaria è un ingrediente essenziale del nuovo Stato a cui pensiamo, perché amministratori che devono solo decidere come spendere risorse che qualcun altro gli procura sono meno responsabili e attenti di amministratori che devono chiedere soldi alla comunità amministrata e rispondere poi del loro uso. Ci sono molte attività che producono costi e benefici sociali di tipo locale e che possono diventare la base per forme trasparenti e partecipate di prelievi di scopo (circolazione stradale, turismo, specifici progetti di investimento con ricadute locali). 

Il federalismo non è un mezzo per redistribuire le risorse, ma per utilizzarle meglio: perequazione ad aliquota fissa e ad aliquota variabile 

La maggior parte degli schemi di perequazione che sono stati elaborati negli ultimi sette anni per cercare di attuare l’art. 119 della Costituzione prevedono che i fondi perequativi debbano definire un’aliquota (o quota) fissa di compartecipazione. L’aliquota viene fissata al livello minimo necessario per lasciare in equilibrio la Regione (o un gruppo di Regioni) più ricche. Riteniamo utile approfondire sul piano tecnico la strada alternativa di aliquote (o quote) variabili, fissate al livello necessario per ciascuna Regione. Questa strada ha due pregi: primo, riduce l’entità complessiva della perequazione; secondo, permette di scommettere sulla dinamicità della quota assegnata.  Quest’ultimo punto è molto tecnico, ma nasconde un aspetto politico che è bene esplicitare. Chi fa propaganda sul federalismo fiscale, lo presenta come un regime in cui a tutti verrà dato di più: alla Sicilia le accise sulle produzioni petrolifere, a Roma i famosi 500 milioni strappati da Alemanno, alle Regioni del Nord una riduzione del residuo fiscale territoriale positivo.  Se vogliamo essere seri, sappiamo bene che questa è pura propaganda, perché la somma dei benefici che ciascun territorio pretende per sé non potrà ovviamente essere pari a zero. Inoltre, stiamo decidendo di realizzare il federalismo fiscale durante una fase di crisi economica, e quindi di ristrettezze finanziarie.  Il PD non fa demagogia, e dice le cose come stanno: il federalismo non è un mezzo per fare redistribuzione (dal Sud verso il Nord), ma è un mezzo per utilizzare meglio le risorse esistenti, sia al Sud che al Nord. L’utilizzo più efficiente è promesso, grazie al federalismo, sulla base di due elementi: primo, il riferimento ai costi standard, e quindi l’introduzione di un obbligo per tutte le amministrazioni pubbliche a collocarsi sulla frontiera dell’efficienza organizzativa; secondo, la maggiore vicinanza fra i cittadini e le amministrazioni che devono curare i servizi essenziali, e quindi la possibilità per i decisori pubblici locali di decidere “meglio” di quanto non possano fare i decisori nazionali, poiché sono in grado di monitorare e valutare con maggiore cura gli effettivi bisogni e le priorità.  Insomma, per usare la terminologia della teoria della finanza pubblica, il federalismo ha una funzione allocativa, e non redistributiva. Detto questo, però, aliquote (o quote) “vere” di compartecipazione – e quindi necessariamente variabili Regione per Regione – possono dare alle Regioni più ricche del Nord la prospettiva futura e graduale di disporre dei proventi derivanti dall’evoluzione naturale del gettito delle grandi imposte nazionali su cui si incardina la compartecipazione.  Tutto va, ovviamente, verificato sul piano tecnico. Ma la compartecipazione variabile renderebbe ancora più evidente che obiettivo del federalismo fiscale non è la scomposizione della nazione, ma al contrario la ricostruzione di una rinnovata unità nazionale intorno ad uno Stato più moderno e più vicino ai cittadini.  Si aprirebbe con grande trasparenza una prospettiva politica e di azione concreta sia al Sud – dove il federalismo è il mezzo per adeguare gli standard non solo di costo, ma anche di quantità – che al Centro-Nord – dove il federalismo è il mezzo non solo per conquistare una maggiore autonomia tributaria di livello regionale e locale, ma anche per introdurre, compatibilmente con le forme di coordinamento dinamico della finanza pubblica e con gli equilibri complessivi del sistema, il criterio della compartecipazione dinamica. 

La bozza Calderoli non funziona 

Non dovrebbe stupire, a questo punto, che il PD esprima un giudizio negativo rispetto alla cosiddetta “bozza Calderoli” per l’attuazione del federalismo fiscale.  In questa proposta, anche nell’ultima versione: (a) si mantiene un principio di “territorialità” delle imposte che confligge con i principi costituzionali fondamentali richiamati all’inizio di questo documento; (b) non viene previsto nessun meccanismo di coordinamento dinamico della finanza pubblica a livello dell’intero sistema; (c) la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni è ristretta, e soprattutto non è chiaro il perimetro delle funzioni fondamentali dei Comuni che verranno perequate a livello nazionale; (d) il fondo perequativo per i servizi essenziali è soggetto alla discrezionalità delle Regioni più ricche; (e) non si fa cenno alla valutazione, accanto ai costi unitari standard, degli obiettivi di servizio essenziali; (f) l’incompleta perequazione comporta una perdita secca di risorse per le Regioni meridionali, eventualmente compensabile con il ricorso ad addizionali Irpef. Infine, per strappare a tutti gli interlocutori istituzionali un consenso preventivo, la bozza incorpora in modo confuso e contraddittorio ogni sorta di richiesta specifica in materia di assegnazione del gettito di tributi esistenti e non affronta il nodo delle Regioni a statuto speciale. Certo, la proposta elaborata dal Ministro Calderoli è un passo avanti rispetto alla proposta elaborata dal Consiglio regionale lombardo. Ma siamo ancora ben lontani da qualcosa che possa essere considerato un punto iniziale di discussione, e ciò soprattutto perché ancora oggi né il Ministro Calderoli né il Governo né il Parlamento sono in possesso di tutti i numeri e di tutte le informazioni necessarie a valutare con serietà l’impatto delle diverse opzioni possibili in materia di federalismo fiscale. E’ questo il lavoro di lunga lena che va invece cominciato. Utilizzando la sede propria, quella del Parlamento. E consentendo al paese di seguire una discussione che oggi sembra ancora troppo esoterica, ovvero un semplice braccio di ferro sui “soldi” da prendere e togliere, e che invece può facilmente diventare, se impostata bene e con indirizzi politici coerenti, un’importante discussione su come funziona lo Stato in Italia, su quanto costa, su come migliorarne la performance a vantaggio dei cittadini.