10 Lug EUROPA – Una festa democratica per definire la nostra proposta di futuro
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in Rassegna stampa
Una “festa democratica” per definire la nostra proposta di futuro
Il congresso del Pd si avvicina. Fuori dalla luce distorta della politica gridata, intendo svolgere alcune riflessioni, quasi in modo schematico. Certamente con cuore e passione che sono, per quanto mi riguarda, gli elementi che mi spingono da anni all’impegno politico. Nella storia dei partiti della democrazia italiana, i congressi “seri”, quando non improntati al culto del capo e di un falso unanimismo, sono stati sempre festa di democrazia e di civiltà, oltre che elaborazione politica e progettuale.
Il congresso è il luogo dove, attraverso un lungo percorso di democrazia che parte dal basso, persone e opinioni si confrontano per arricchire la proposta del partito. Elegge democraticamente una classe dirigente che si assume l’onere e l’onore di guidarlo per un certo periodo, sapendo che non è di proprietà dei vincitori del congresso, ma di tutti. Con l’avvento in politica di Berlusconi i congressi hanno mutato fisionomia, sono diventati l’incoronazione del leader. Questa malattia ha colpito anche i partiti del centrosinistra e penso, per esempio, con spirito di autocritica, alla poco seria disputa Prodi-Bertinotti nelle primarie del 2005, ai tanti nodi e problemi che hanno creato le anomale primarie in cui Veltroni fu scelto come leader portando con sé, dopo l’elezione, tutte le cause che poi ne hanno sancito le dimissioni. Noi del Pd abbiamo avviato il congresso che si basa su uno statuto, approvato unanimemente, che prevede l’elezione del segretario dopo un percorso abbastanza contorto, che si conclude con il voto dei cittadini tutti e non degli iscritti. Il congresso si fa giustamente con lo statuto vigente che poi si cambierà nella parte demagogica e populista. Non si cambia lo statuto in corsa, perché questo è solo dei partiti “personali”. Non condivido affatto i pianti, le lacrime e gli strilli di quanti hanno chiesto lo slittamento del congresso, pena l’autodistruzione del Pd. Qui va rimarcato che pur nelle sue difficoltà e debolezze, ha uno statuto democratico ed elegge i propri organi democraticamente (forse troppo), a differenza di quanti invece, nel Pdl, ricorrono a investiture molto personali e a congressi finti. Dario Franceschini e Pierluigi Bersani sono persone troppo intelligenti per non sapere che il congresso va gestito, guidato e vissuto come festa di democrazia non come conta personale, sanno bene che nessuno può giocare allo sfascio.
La classe dirigente del Pd sa bene che il congresso deve terminare con una proposta politica inclusiva verso quanti perderanno; deve servire a definire un modo di essere partito, di interpretare i bisogni reali dei cittadini, una linea politica che riporti al governo del paese i riformisti.
Da qui deve uscire un’ipotesi di speranza, di futuro, di progettualità, deve venir fuori l’Italia dei prossimi vent’anni, non il ripiegamento sui mali, gli errori e i problemi dell’Italia di ieri, né tantomeno la riproposizione di duelli che hanno appassionato alcuni dei partiti di provenienza di ognuno di noi.
Lo dobbiamo svolgere all’insegna dell’Italia dei nostri figli, non pensando a quella dei padri. Deve chiarire che vogliamo un Pd democratico che non ha padroni, nel quale diverse culture riformiste siano in grado di mescolarsi ed elaborare una proposta politica.
Alcuni interrogativi tutti interni al partito cui dare risposte: quale il ruolo del circolo e dei soci? Quale rapporto tra soci, dirigenti e società? Quale collaborazione tra eletti e partito? Quale ruolo tra amministratori e partito e quali compiti differenziati? Come si sceglie la classe dirigente? Altri interrogativi esterni: come dare una risposta seria all’ondata di populismo e demagogia che spesso diventano nella pubblica amministrazione l’esaltazione degli eletti e la mortificazione dei soci-cittadini? Come evitare cesarismi di varia natura? Quale equilibrio tra sindaci, presidenti di provincia e regione e partito? Quale legge elettorale, quale sistema di coalizione? Quale risposta alla crisi dei valori che stravolge la società italiana, come conciliare i diversi interessi tra il nord che aspira a un’ulteriore competitività mondiale ed il sud che spesso arranca sulla ordinaria amministrazione? Quale sicurezza vogliono gli italiani, quale modello di sanità o di welfare, quale scuola garantire? Certamente non quella che ognuno può permettersi. Quale stato ricostruire, uno nel quale chi può fa all’insegna del’egoismo o dello sfrenato liberismo, o uno che premia il merito, garantisce il bisogno, aiuta una redistribuzione delle risorse verso quanti vivono ai margini della società o ne sono esclusi? Quale Italia in quale Europa? Certo non l’Europa delle banche o dei mercati, ma dei popoli. Quale rapporto con alcuni beni primari: di chi è l’acqua? Non in Italia, ma nel mondo. Perché l’uomo va sulla luna, costruisce sistemi sofisticati, produce macchine potentissime e non è capace di trasportare l’acqua verso le zone sprovviste del mondo? Può uno stato continuare a costruire e produrre armi, oppure va avviata una riconversione mondiale del mercato delle armi con sanzioni pesanti verso quegli stati che continuano la produzione? Come evitare la fuga dai paesi poveri, con le espulsioni o con una politica reale di sviluppo e crescita guidata di quelle nazioni, definite terzo mondo, che vanno messe in condizioni di svilupparsi ed essere autonome? Quale risposta alla fame nel mondo, agli egoismi delle nazioni cosiddette civili? Sono tutti interrogativi cui un partito serio e riformista deve dare risposte, senza alcuna presunzione, autoreferenzialità o principio di autosufficienza.
Consci dei propri valori e della enorme rappresentatività elettorale, ma sapendo che, come scriveva Aldo Moro durante la seconda guerra mondiale, «ogni persona è un universo». A questo serve il congresso di un partito che vuole guidare l’Italia, non alla conta o alle rivalse personali tra opposte fazioni. Sono certo che sarà futuro, sarà speranza, sarà rinnovamento vero. Sono fiducioso che sarà dialettica e, come nelle migliori tradizioni dei partiti italiani, finirà con una classe dirigente vincitrice, un segretario eletto e una minoranza consapevole del proprio ruolo e della propria funzione insostituibile di stimolo, verifica, controllo, democrazia. Quali che siano le posizioni, qualcosa rimane di noi negli altri e degli altri in noi. Valeva nel 1977 quando c’erano Dc e Pci, vale maggiormente oggi nello stesso partito. Certo, da oggi a fine ottobre sarà congresso, forse anche lungo e dialetticamente aspro. Sono i tempi ed i ruoli della democrazia.: il giorno dopo si ricomincia, tutti insieme, non solo perché il partito è di tutti, ma soprattutto perché l’Italia e i cittadini aspirano alla organizzazione del futuro, della speranza. Questo può farlo un partito consapevole della posta in gioco e della sua funzione insostituibile di democrazia e proposta che contiene e svolge.
Il congresso è il luogo dove, attraverso un lungo percorso di democrazia che parte dal basso, persone e opinioni si confrontano per arricchire la proposta del partito. Elegge democraticamente una classe dirigente che si assume l’onere e l’onore di guidarlo per un certo periodo, sapendo che non è di proprietà dei vincitori del congresso, ma di tutti. Con l’avvento in politica di Berlusconi i congressi hanno mutato fisionomia, sono diventati l’incoronazione del leader. Questa malattia ha colpito anche i partiti del centrosinistra e penso, per esempio, con spirito di autocritica, alla poco seria disputa Prodi-Bertinotti nelle primarie del 2005, ai tanti nodi e problemi che hanno creato le anomale primarie in cui Veltroni fu scelto come leader portando con sé, dopo l’elezione, tutte le cause che poi ne hanno sancito le dimissioni. Noi del Pd abbiamo avviato il congresso che si basa su uno statuto, approvato unanimemente, che prevede l’elezione del segretario dopo un percorso abbastanza contorto, che si conclude con il voto dei cittadini tutti e non degli iscritti. Il congresso si fa giustamente con lo statuto vigente che poi si cambierà nella parte demagogica e populista. Non si cambia lo statuto in corsa, perché questo è solo dei partiti “personali”. Non condivido affatto i pianti, le lacrime e gli strilli di quanti hanno chiesto lo slittamento del congresso, pena l’autodistruzione del Pd. Qui va rimarcato che pur nelle sue difficoltà e debolezze, ha uno statuto democratico ed elegge i propri organi democraticamente (forse troppo), a differenza di quanti invece, nel Pdl, ricorrono a investiture molto personali e a congressi finti. Dario Franceschini e Pierluigi Bersani sono persone troppo intelligenti per non sapere che il congresso va gestito, guidato e vissuto come festa di democrazia non come conta personale, sanno bene che nessuno può giocare allo sfascio.
La classe dirigente del Pd sa bene che il congresso deve terminare con una proposta politica inclusiva verso quanti perderanno; deve servire a definire un modo di essere partito, di interpretare i bisogni reali dei cittadini, una linea politica che riporti al governo del paese i riformisti.
Da qui deve uscire un’ipotesi di speranza, di futuro, di progettualità, deve venir fuori l’Italia dei prossimi vent’anni, non il ripiegamento sui mali, gli errori e i problemi dell’Italia di ieri, né tantomeno la riproposizione di duelli che hanno appassionato alcuni dei partiti di provenienza di ognuno di noi.
Lo dobbiamo svolgere all’insegna dell’Italia dei nostri figli, non pensando a quella dei padri. Deve chiarire che vogliamo un Pd democratico che non ha padroni, nel quale diverse culture riformiste siano in grado di mescolarsi ed elaborare una proposta politica.
Alcuni interrogativi tutti interni al partito cui dare risposte: quale il ruolo del circolo e dei soci? Quale rapporto tra soci, dirigenti e società? Quale collaborazione tra eletti e partito? Quale ruolo tra amministratori e partito e quali compiti differenziati? Come si sceglie la classe dirigente? Altri interrogativi esterni: come dare una risposta seria all’ondata di populismo e demagogia che spesso diventano nella pubblica amministrazione l’esaltazione degli eletti e la mortificazione dei soci-cittadini? Come evitare cesarismi di varia natura? Quale equilibrio tra sindaci, presidenti di provincia e regione e partito? Quale legge elettorale, quale sistema di coalizione? Quale risposta alla crisi dei valori che stravolge la società italiana, come conciliare i diversi interessi tra il nord che aspira a un’ulteriore competitività mondiale ed il sud che spesso arranca sulla ordinaria amministrazione? Quale sicurezza vogliono gli italiani, quale modello di sanità o di welfare, quale scuola garantire? Certamente non quella che ognuno può permettersi. Quale stato ricostruire, uno nel quale chi può fa all’insegna del’egoismo o dello sfrenato liberismo, o uno che premia il merito, garantisce il bisogno, aiuta una redistribuzione delle risorse verso quanti vivono ai margini della società o ne sono esclusi? Quale Italia in quale Europa? Certo non l’Europa delle banche o dei mercati, ma dei popoli. Quale rapporto con alcuni beni primari: di chi è l’acqua? Non in Italia, ma nel mondo. Perché l’uomo va sulla luna, costruisce sistemi sofisticati, produce macchine potentissime e non è capace di trasportare l’acqua verso le zone sprovviste del mondo? Può uno stato continuare a costruire e produrre armi, oppure va avviata una riconversione mondiale del mercato delle armi con sanzioni pesanti verso quegli stati che continuano la produzione? Come evitare la fuga dai paesi poveri, con le espulsioni o con una politica reale di sviluppo e crescita guidata di quelle nazioni, definite terzo mondo, che vanno messe in condizioni di svilupparsi ed essere autonome? Quale risposta alla fame nel mondo, agli egoismi delle nazioni cosiddette civili? Sono tutti interrogativi cui un partito serio e riformista deve dare risposte, senza alcuna presunzione, autoreferenzialità o principio di autosufficienza.
Consci dei propri valori e della enorme rappresentatività elettorale, ma sapendo che, come scriveva Aldo Moro durante la seconda guerra mondiale, «ogni persona è un universo». A questo serve il congresso di un partito che vuole guidare l’Italia, non alla conta o alle rivalse personali tra opposte fazioni. Sono certo che sarà futuro, sarà speranza, sarà rinnovamento vero. Sono fiducioso che sarà dialettica e, come nelle migliori tradizioni dei partiti italiani, finirà con una classe dirigente vincitrice, un segretario eletto e una minoranza consapevole del proprio ruolo e della propria funzione insostituibile di stimolo, verifica, controllo, democrazia. Quali che siano le posizioni, qualcosa rimane di noi negli altri e degli altri in noi. Valeva nel 1977 quando c’erano Dc e Pci, vale maggiormente oggi nello stesso partito. Certo, da oggi a fine ottobre sarà congresso, forse anche lungo e dialetticamente aspro. Sono i tempi ed i ruoli della democrazia.: il giorno dopo si ricomincia, tutti insieme, non solo perché il partito è di tutti, ma soprattutto perché l’Italia e i cittadini aspirano alla organizzazione del futuro, della speranza. Questo può farlo un partito consapevole della posta in gioco e della sua funzione insostituibile di democrazia e proposta che contiene e svolge.