EUROPA – I tempi nuovi di Aldo Moro

EUROPA – I tempi nuovi di Aldo Moro

I “tempi nuovi” di Aldo Moro
Trentasei anni dopo l’attentato di via Fani l’analisi del decennio 1958-68 che vide la sua ascesa politica e la ricerca di nuovi assetti politici
Per cogliere nella sostanza il messaggio di fondo del decennio 1958-68 del leader democristiano, bisogna evidenziare che Moro divenne protagonista della scena politica italiana sin dalle prime battute alla camera nel 1953.
I risultati della elezioni politiche, che non avevano fatto scattare il premio di maggioranza, previsto dalla cosiddetta Legge truffa, gli permisero di enunciare la sua prima grande intuizione, nella solenne cornice di Montecitorio, nella veste di capogruppo democristiano alla camera, sulla fiducia all’VIII governo De Gasperi.
Il centrismo era finito, ergo bisognava associare i socialisti alle responsabilità governative, avviando il loro graduale allontanamento da frontismo con i comunisti. Tramontato De Gasperi, l’intuizione morotea venne colta da Fanfani. Allora vennero messe le basi per la futura metafora dei due cavalli di razza, che tanta fortuna ebbe in seguito.
Moro e Fanfani, con un costante alternarsi di rapporti odio/amore, furono i protagonisti, a partire dal decennio 1958-68.
La confusione seguita alla prima débâcle di Fanfani, costretto a dimettersi da presidente del consiglio e segretario nazionale della Dc nel gennaio 1959, alimentata dalla nascita della corrente dorotea, crearono le condizioni per un invito pressante dei maggiorenti democristiani a Moro, perché prendesse le redini della Dc. Il ragionevole retropensiero di affidarsi a lui per una fase di transizione, immaginato e sperato da Segni e Rumor, non si verificò.
L’autorità di Moro ben presto si ammantò di tale autorevolezza, che la segreteria provvisoria si stabilizzò al congresso di Firenze.
Tra i primi ad intuire il cambio di passò nella Dc fu il cardinale Siri, divenuto presidente della Conferenza episcopale italiana, che, ben presto, omaggiò Moro, chiedendogli di risolvere la vexata quaestio della scuola cattolica, da sempre cruccio per la politica democristiana.
I due si annusarono.
L’autonomia dei cattolici sul versante della politica, colta da Siri nel suo pieno e vero significato moroteo, non poteva essere accettata dalla Gerarchia, abituata a muoversi da dietro le quinte, ben manovrata da alcuni personaggi, di cui il cardinale Ottaviani era l’emblema più significativo.
Lo scontro sull’autonomia ben presto si misurò dal piano dei principi a quello più pragmatico della governabilità. Al centro dello scontro il governo Tambroni, voluto dal presidente Gronchi, sicuramente caldeggiato da Siri, suo amico e consigliere a secretiis, complice la sindrome da ricandidatura per il Quirinale.
Il governo Tambroni aveva come sostenitori buona parte dei dorotei e i centristi, che per contro alimentavano la crescita della sinistra Dc, impersonata dalle nuove generazioni dei Donat-Cattin, dei De Mita e dei Galloni. Fu una partita durissima, in certi momenti drammatica.
Siri capì che Tambroni era la linea del Piave. Per stanare Moro, cercò l’aiuto e la mediazione di Enrico Nicodemo, arcivescovo di Bari, amico di ambedue. Moro fu inflessibile. Siri prese atto che ormai l’apertura ai socialisti era dietro l’angolo e sarebbe stata avviata dal piccoletto, un vezzeggiativo usato nei suoi diari per parlare di Fanfani. Finita la battaglia, ci furono gli ultimi tentativi per non perdere la guerra, che si sarebbe giocata al congresso di Napoli. Siri e Moro, autonomamente, si appellarono a Giovanni XXIII, che diede disco verde a Moro, aiutato alla vigilia del Concilio dai cardinali Montini e Lercaro.
Moro con la relazione di oltre sei ore divenne il nuovo dominus della scena politica, favorendo la rottura del frontismo comunista-socialista. Si aprì la stagione del riformismo: la nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’impulso delle nuove partecipazioni statali, la revisione della politica agraria, la revisione dello stato centralista. Il tutto nella logica dell’ampliamento della base popolare della democrazia, lasciando fuori i comunisti e sull’altro versante destra estrema missina e moderata liberale.
Le buone premesse della vigilia elettorale del 1963 si scontrarono con la realtà effettuale dei risultati. Sciolte le riserve a livello di vertice tra Dc, i due partiti democratici alleati tradizionali, Psdi e Pri, e i socialisti, che aprivano al centrosinistra organico guidata d Moro, la notte di San Gregorio, al termine di una nottata defatigante, conclusa alle cinque del mattino, Pietro Nenni subì il primo stop dalla sua sinistra.
Moro s’inventò il primo governo balneare, affidato a tempo, a Giovanni Leone.
Dopo il congresso straordinario socialista, vinto da Nenni, Moro nel dicembre 1963 diede vita al suo primo governo, mentre era in atto la difficile situazione economica, attribuita, dalle forze ostili al centrosinistra, alla novità della programmazione, la nuova categoria resa popolare da Moro e il suo ministro Giovanni Giolitti.
A fine giugno ’64, complice la classica buccia di banana, ossia la bocciatura di un modesto finanziamento per la scuola cattolica, emerse lo scollamento della maggioranza, prontamente registrato dalle dimissioni di Moro. Cominciò la calda estate con il tentativo delle forze politiche, sociali ed economiche protagoniste per un ritorno alla fase centrista.
L’Italia visse un periodo drammatico, avviato e segnato dal cosiddetto Piano Solo e dal tintinnio delle sciabole, seguito dall’ictus del presidente della repubblica Segni e dalla scomparsa di Palmiro Togliatti, segretario e leader indiscusso del Pci.
La fase si chiuse con l’elezione sofferta di Giuseppe Saragat alla presidenza della repubblica. Fu un’iniezione di fiducia nei confronti del centrosinistra, che acquisì i caratteri dell’irreversibilità.
I nuovi equilibri democristiani con Fanfani agli Esteri comportarono piccoli aggiustamenti nel governo, mentre acquisiva autorevolezza il neosegretario socialista, Giuseppe De Martino.
Moro, ottenuta la tranquillità nel paese, si dedicò con maggiore attenzione ai problemi dell’economia e alla politica estera. Per l’Italia fu un momento di vetrina nel mondo. Moro ebbe contatti diretti a Washington, con l’amministrazione di Johansson, con il premier britannico, Wilson, con il cancelliere austriaco Klaus per la soluzione pacifica dell’Alto Adige. Moro quindi tornò a dialogare con il mondo cattolico, che il Concilio aveva galvanizzato per un maggiore impegno anche nella società civile, divenuta più esigente nei confronti della politica. La stessa classe politica democristiana cominciò a far valere le esigenze correntizie, a scapito del costante richiamo moroteo all’unità del partito.
Il centrosinistra del 1967 rimase sulla difensiva, in parte dovuto alla unificazione tra socialisti e socialdemocratici nel nuovo Partito socialista unificato. Tenne banco il grande dibattito sui servizi segreti, sui comportamenti del Sifar, che Moro gestì in prima persona, anche per la debolezza politica dell’allora ministro della difesa Tremelloni.
Le riforme del centrosinistra segnarono il passo.
L’istituzione delle regioni a statuto ordinario, da tempo attesa come la panacea di tutti i mali, fu bloccata dai timori delle reazioni della gente. Si andò allo scioglimento anticipato delle camere, sia pure di qualche mese, mentre già erano in atto le prime avvisaglie del fenomeno sessantotto. Moro lo aveva colto e denunziato apertamente: i segni devastanti erano apparsi in America e negli altri paesi occidentali, quali la Francia, Gran Bretagna e Germania. Ma la classe politica dirigente non fu molto lungimirante, preoccupata del presente e del consenso immediato da portare a casa.
L’ultimo appello accorato, preparato minuziosamente, venne lanciato dalle colonne dell’Avvenire d’Italia. L’intervista di Moro al direttore Raniero La Valle chiedeva comprensione nei confronti dei socialisti, per favorire il loro traghettamento alla democrazia e un forte sostegno alla Dc, per continuare a svolgere il suo ruolo storico centrale nello scacchiere italiano e internazionale.
Il messaggio moroteo non fu accolto. I risultati azzopparono i socialisti unificati. Anche la Dc guadagnò molto poco. Moro capì, restò muto e silenzioso e si mise in disparte. Fece sentire nuovamente la sua voce in pubblico al Consiglio nazionale del 21 novembre 1968, di cui divenne emblema il celebre passaggio: «Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai».
Il mese prima aveva scritto una riflessione, molto lunga, per la prima volta con due versioni manoscritte, divenute una novantina di cartelle. Venne meno anche il tentativo dei due segretari Rumor e De Martino di sostituire, rispettivamente Moro e Nenni. Il tentativo, già abbozzato nel 1966, venne rinviato ancora una volta a tempi migliori. Si tornò al già collaudato II governo balneare di Leone.
Estratto dalle conclusioni del saggio “Il centro-sinistra di Aldo Moro (1958-1968)”. Marsilio Editori. Introduzione di Agostino Giovagnoli. Con il patrocinio dell’Istituto Sturzo. In libreria in questi giorni.